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giovedì 11 luglio 2019

Potrebbe Trump riportare il prezzo del petrolio a 140 dollari?

Trump e bandiera americana
Una cosa è certa: con Trump non ci si annoia mai.
La sua campagna elettorale permanente prevede sempre la presenza di un nemico da sconfiggere o da ridurre a più miti consigli.
E visto che stiamo parlando di un uomo che ha conquistato la Casa Bianca contro tutti i sondaggi, probabilmente la sua strategia è, al momento, efficace.
Prima il Messico e i messicani, poi la Cina ed ora si aggiunge l’Iran.
In realtà l’Iran è sempre stato considerato dagli Usa un nemico ma con gli accordi stipulati dall’amministrazione Obama i rapporti si erano ricuciti.
Sia chiaro, Iran e Usa non giocavano a golf insieme come amici di vecchia data, ma già limitarsi a mantenere buoni rapporti era un considerato un gran successo.
Poi le tensioni sono aumentate costantemente da maggio 2018, quando Trump abbandonò improvvisamente l’accordo nucleare del 2015 tra l’Iran e le sei potenze mondiali.
Trump non ha solo abbandonato l’accordo ma ha ripristinato le sanzioni per costringere l’Iran a rinegoziarlo.
Ora le scaramucce si sono di nuovo manifestate dopo l’abbattimento del drone statunitense sullo stretto di Hormuz.
L’Iran sostiene che gli Usa hanno violato il suo spazio aereo.
Gli Stati Uniti insistono che si trattava di acque internazionali.
Tutto questo è stato preceduto da due serie di esplosioni che hanno danneggiato sei navi petroliere nella regione.
Una regione nella quale passa ogni giorno un quinto del petrolio mondiale.
Naturalmente non è mia intenzione sindacare sulle ragioni dell’uno o dell’altro.
Non sono un esperto di geo-politica e, anche se lo fossi, non è senza dubbio questo il luogo adatto per discuterne.
Ormai dovresti conoscermi.
Quello che mi interessa è l’impatto che queste tensioni possono avere sui mercati finanziari e sui miei (e tuoi) portafogli di investimento.
Non c’è dubbio che i mercati siano particolarmente sensibili a ciò che avviene in quelle regioni.
Questo perché ogni tensione si riflette sul prezzo del petrolio.
E il prezzo del petrolio influenza l’andamento della crescita economica la quale, a sua volta, si riflette nei mercati finanziari.
Ma andiamo con ordine.
Le tensioni geo-politiche nel medio oriente impattano sul prezzo del petrolio perché oltre il 70% delle riserve mondiali si trovano proprio sotto quelle terre:
grafico dei paesi con maggiori riserve di petrolio e gas
Hai presente il sobbalzo che fai quando ti infilano sottopelle un ago senza preavviso?
Ecco quella è la reazione del prezzo del petrolio ad ogni minima tensione che vede coinvolte quelle terre.
E, come ti accennavo, il prezzo del petrolio influenza non poco l’economia e, di riflesso, il mercato finanziario.
Mercato obbligazionario, azionario, delle valute si muovono repentinamente ad ogni battito d’ali di farfalla nel golfo Persico.
Tuttavia, se mi segui da un po’ e se hai letto il mio libro, la strategia che adotto e che mi consente di battere il benchmark ormai da 10 anni, è quella di un investitore di lungo periodo nel mercato azionario americano.
Quindi quello che devo analizzare è l’impatto che le quotazioni dell’oro nero hanno sui mercati d’oltreoceano.
Allora vediamo.
Il petrolio è una materia prima quotata pertanto, così come le azioni, le obbligazioni, le valute eccetera, è influenzato anche da un elemento che i mercati in genere odiano.
Sto parlando dell’incertezza.
Una minaccia, come ad esempio quella di Trump nei confronti dell’Iran, è un’incertezza.
E in un simile contesto ogni teoria ed ogni analisi può essere valida.
Alcuni analisti sostengono che la minaccia è reale altri che si tratta di una bufala.
Altri ancora non si esprimono mentre alcuni illuminati si lanciano in previsioni con gradi di certezza assoluta.
Nel frattempo i mercati non sanno come muoversi e, nel breve periodo, vanno in fibrillazione.
Tecnicamente si dice che aumenta la volatilità.
Ma a noi del breve periodo frega nulla… giusto?
Tuttavia anche lo stato d’animo dell’investitore di lungo periodo viene messo a dura prova dalle incertezze di breve periodo.
E allora vediamo un po’ come si sta evolvendo la situazione.
Uno scontro in Medio Oriente, anche se improbabile, farebbe impennare i prezzi del petrolio… questo ce lo siamo già detti.
L’aumento del prezzo dell’oro nero, se prolungato nel tempo, comporterebbe un duro colpo per il motore dell’economia americana ovvero la spesa dei consumatori.
Infatti l’aumento dei costi di produzione delle aziende (pensa ad esempio al costo dell’energia) verrebbe scaricato sui prezzi dei beni che producono e, naturalmente aumenterebbero.
E se i prezzi aumentano, a parità di salario, una famiglia deve ridurre le spese o indebitarsi per mantenere lo stesso tenore di vita.
E’ per questo che il prezzo del petrolio viene tenuto in considerazione come anticipatore di una recessione.
Alcuni esempi per comprendere meglio il concetto.
Se hai i capelli grigi e purtroppo qualche acciacco dovuto all’età, allora ricorderai come l’embargo petrolifero saudita del 1973-1974 ha contribuito a innescare un balzo dei prezzi del petrolio che ha paralizzato l’economia.
Oppure come la rivoluzione iraniana del 1979 ha portato a una recessione negli Stati Uniti.
Allo stesso modo, l’economia americana è scivolata in una recessione dopo che l’Iraq ha invaso il Kuwait nel 1990 e di nuovo dopo il rovesciamento americano del dittatore iracheno Saddam Hussein nel 2003.
E ancora.
Ricorderai come nel 2008 la grande recessione è stata causata da un’epica bolla immobiliare.
Tuttavia non ti sarà sfuggito anche il fatto che il prezzo del petrolio era alle stelle, sopra i 140 dollari al barile, nell’estate del 2008.
Significa quindi che prezzi elevati del petrolio conducono spesso ad una recessione.
Ma la domanda è: quando il prezzo del petrolio può considerarsi “elevato”?
Se elevato è 140, il suo massimo del 2008, allora in questo momento con la quotazione a 66 dollari possiamo stare tranquilli.
Se così fosse, ognuno di noi potrebbe facilmente considerarsi un analista.
Se il massimo è a 140 e ora quota 66 perché mi dovrei preoccupare?
La realtà dei fatti è ben diversa e la risposta è sempre: dipende.
Molte cose sono cambiate rispetto al passato.
Il massimo di 140 dollari a barile del 2008 fu raggiunto in un contesto diverso rispetto ad oggi.
Ad esempio, rispetto ad allora, gli USA sono molto più indipendenti dall’energia grazie all’aumento di produzione soprattutto nel Texas occidentale.
Significa che assorbono molto più facilmente eventuali shock di prezzo dell’oro nero.
Inoltre c’è un altro fattore da considerare.
I prezzi elevati del petrolio non comportano una recessione immediata dell’economia.
Come ti dicevo, lo puoi considerare come un indicatore di tensione che, se prolungato, può riflettersi sull’andamento economico globale.
Quindi torniamo a noi.
In questo momento siamo in un contesto di volatilità dovuta semplicemente a tensioni geo-politiche?
Oppure questa si aggiunge ad un prezzo già elevato che potrebbe riversarsi nel tempo sui prezzi dei beni che acquisti facendoli aumentare?
Se così fosse siamo quindi in prossimità di una recessione?
La risposta è ancora una volta: dipende.
Dipende perché le variabili da tenere in considerazione sono infinite e gli strumenti in mano alle banche centrali per controllare eventuali tendenze inflazionistiche non sono gli stessi del passato.
Tieni comunque presente che una recessione prima di esplodere viene anticipata da numerosi segnali – tra questi certamente anche il prezzo del greggio – che devi essere in grado di leggere se vuoi riposizionare il portafoglio prima di venire travolto dall’onda.
Nel mio libro ti racconto come avevo previsto la recessione del 2008 ben prima della sua esplosione nell’estate dello stesso anno.
Ti rimando al libro per saperne di più.
In “Battere il benchmark” scoprirai come il mio sistema analizza i mercati tenendo conto di tutte queste variabili.
Tuttavia le variabili hanno impatti diversi a seconda del settore che stai analizzando.
E all’interno di ogni settore le singole aziende non ne risentono tutte allo stesso modo.
Quindi ti serve un sistema per selezionare soprattutto in periodi di alta volatilità o recessione, le aziende che ne risentono meno o si difendono meglio o addirittura ne sono avvantaggiate.
Quindi occhio, perché cadere nella trappola dell’emotività di breve periodo è facilissimo se non hai una mappa che ti guida alla meta.
Continua a seguirmi sui consueti canali e ti terrò aggiornato.



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venerdì 31 marzo 2017

Domino Solutions : Il nuovo calo del petrolio sta creando opportunità

Il recente calo delle attività legate all’energia appaiono esagerate, secondo le nostre analisi, dato le nostre prospettive sui prezzi del petrolio. Anzi, si stanno creando opportunità di acquisto di azioni energetiche. I prezzi del petrolio sono scesi questo mese, dopo la negoziazione di una gamma stretta nei primi mesi del 2017. Le preoccupazioni per l’eccesso di offerta ha portato alla liquidazione dei livelli record e alla speculazione sui prezzi del greggio i quali potrebbero salire ulteriormente. I titoli legati all’energia, tuttavia, sembrano aver ceduto valore troppo facilmente e con troppo pessimismo. Il divario delle prestazioni tra il recente aumento delle scorte di petrolio e la domanda di energia globale sembra essere incoraggiante.

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Perchè c’è stato il calo del petrolio

Nel l’ultimo bollettino mensile Opec, le cifre trasmesse da Riad indicano una brusca marcia indietro nei tagli produttivi sauditi, con l’output risalito in febbraio di ben 263.300 barili al giorno, a 10,011 milioni di bg (comunque al di sotto della quota assegnata di 10,058 mbg). Le stime di fonti secondarie – adottate dal gruppo per verificare la disciplina dei Paesi membri – registrano invece un’ulteriore discesa di 68.100 bg, a 9,797 mbg.

La guerra si è rivelata più costosa del previsto per i sauditi. Le riserve finanziarie si sono sgonfiate notevolmente: dai 746 miliardi del 2014 si è passati ai 536 del 2016, con un crollo insostenibile per le casse dello Stato. Per questo nessuno si è stupito quando l’anno passato ha dichiarato il cessate il fuoco firmando l’accordo per tagliare la produzione. La strategia saudita sarebbe risultata vittoriosa se fosse riuscita a buttar fuori dal mercato Usa e Iran, ma al contrario si è rivelata suicida. Uscendo da un periodo durissimo, Teheran era destinata ad avvantaggiarsi di qualsiasi nuova esportazione dopo la fine delle sanzioni, e a qualsiasi prezzo.

I produttori americani, d’altra parte, sono riusciti a mantenere un vantaggio competitivo grazie alla superiorità tecnologica. I prezzi bassi hanno avuto l’effetto di far concentrare i petrolieri sulla riduzione dei costi, aumentando l’efficienza di estrazione abbastanza da abbassare il prezzo di breakeaven a un punto sostenibile.

Articolo correlato: Investire in materie prime: shale realmente in ripresa?

I vari rimbalzi tra domande e scorte

La domanda e offerta hanno supportato i prezzi del petrolio all’inizio di quest’anno. I trader speculativi nei mercati a termine hanno contribuito alla crescita del greggio sulle aspettative dell’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio (OPEC) e nei paesi non OPEC i quali hanno aiutato associandosi all’accordo sui tagli alla produzione. Il nervosismo sui livelli record di tali posizioni, l’aumento della produzione negli Stati Uniti e i dubbi crescenti sulla conformità del taglio, hanno scatenato il recente calo dei prezzi del petrolio.

I prezzi del petrolio sono difficili da prevedere, i tagli di produzione fanno da cerniera in un contesto politico incerto. Il prezzo del petrolio lo vediamo laterale nei prossimi tre mesi. I membri dell’OPEC hanno mostrato molta disciplina riguardo il taglio della produzione e la crescita dell’inventario dovrebbe presto stabilizzarsi dato che le raffinerie stanno aumentando gli acquisti. La domanda globale è destinata ad aumentare nel bel mezzo della reflazione.

I titoli energetici sembrano riflettere una prospettiva ribassista. Questo crea delle belle opportunità. Ci piacciono molto aziende che si occupano dello shale americane. Tra tagli dei costi, miglioramento delle tecnologie e prospettive di regolamentazione più flessibili. Anche il valore della diversificazione offerta da parte delle imprese energetiche integrate, tra cui relativamente a buon mercato come le major petrolifere europee. Obbligazioni ad alto rendimento energetico offrono migliore valori dopo il recente selloff. Noi preferiamo crediti di società di esplorazione grazie ai rendimenti interessanti e la disciplina di bilancio.

Probabili nuovi tagli alla produzione

Recuperata la soglia di 50 dollari al barile, il petrolio nelle ultime sedute l’ha ripassata nettamente al ribasso. Ed ecco che l’Opec passa allora alle parole forti verso i suoi membri: li invita tutti a tagliare la loro produzione, in linea con gli accordi del 30 novembre 2016, avvertendo che, se non lo faranno, i mercati resteranno depressi. Il tagli concordato di 1,2 milioni di barile al giorno va considerato in “modo molto serio” dice il ministro del Petrolio del Kuwait, Issam Almarzooq, che presiede il comitato dell’Opec che sovrintende all’implementazione dell’accordo. “Occorre fare di più – aggiunge – Serve conformità nel board. Assicuriamo che noi lo faremo”.

Sui mercati c’è insofferenza, perché si continua a vedere una crescita delle scorte americane insieme all’attività di estrazione degli Usa, il mercato sta sicuramente domandando una estensione dell’accordo Opec. Non è un caso che i gestori dei fondi speculativi siano assolutamente scettici sulla possibilità che il prezzo del petrolio salga ulteriormente: secondo la U.S. Commodity Futures Trading Commission, le posizioni nette lunghe (cioè le scommesse sui rialzi) sono scese del 37% dai record del mese scorso. Intanto il prezzo del barile Wti resta sotto i 48 dollari al barile sui mercati proprio per le incertezze che ancora persistono, fra paesi Opec e non, sul prolungamento dei tagli alla produzione. Il Brent è poco sopra 50 dollari. Nell’ultima settimana il Wti ha toccato i minimi dell’anno, scendendo persino sotto quota 48 dollari al barile.

mercoledì 21 dicembre 2016

Investire in materie prime: shale realmente in ripresa?

Lo shale oil è una particolare tipologia di petrolio derivante dai frammenti di rocce di scisto bituminoso presenti nel sottosuolo e prodotto mediante complessi processi chimici che convertono la materia organica all’interno della roccia in petrolio e gas sintetico. Esso viene poi usato come combustibile (principalmente come olio per riscaldamento e carburante marino) e in misura minore nella produzione di varie sostanze chimiche.

Gli Stati Uniti nell’ultimo decennio hanno puntato molto sullo shale oil (e in parallelo sullo shale gas) per raggiungere l’indipendenza energetica, tanto da investire 200 miliardi di dollari dal 2003 in poi in equipaggiamenti e macchinari di estrazione. Proprio nel momento più fiorente per questa moderna attività, però, si è verificata la ben nota crisi di sovrapproduzione petrolifera, con il crollo del suo prezzo sino ai minimi di 28,50$ al barile di inizio 2016 che ha portato alla bancarotta di un terzo degli operatori di questo nuovo settore, sin troppo esposti finanziariamente e incapaci dunque di adempiere alle loro obbligazioni a seguito delle gravi perdite di liquidità subite (non sostenute in alcun modo dalle varie linee di credito che hanno deciso di sospendere ogni forma di prestito).

Dopo più di un anno di tagli della produzione di shale oil, le aziende produttrici sembrerebbero finalmente essere in grado di invertire la tendenza: è stata infatti annunciata la produzione complessiva di 2,000 barili al giorno in più a partire dal Gennaio 2017, per un totale di 4542 milioni di barili quotidiani.

Shale gas America, fracking, estrazione petrolio

Il 30 Novembre 2016 è stata una data fondamentale in quanto si è raggiunto uno storico accordo tra i paesi membri dell’OPEC, i quali ridurranno la produzione di 1,2 milioni di barili al giorno. Inoltre gli stessi i paesi non-OPEC realizzeranno imponenti tagli alla produzione, guidati dall’importante collaborazione in tal senso garantita dai russi, così da esserci la possibilità concreta che il mercato del greggio giunga ad una condizione di deficit per la prima metà dell’anno nuovo.

Questa serie di spinte rialziste al prezzo del petrolio non può far altro che giovare agli interessi dei produttori di shale oil, i quali a loro volta nel frattempo hanno migliorato notevolmente le tecniche di estrazione, abbassandone i costi del 40% (in alcune aree anche più del 50%) tanto da ridurre il punto di pareggio tra costi e ricavi al punto tale che un prezzo di 50$ al barile è divenuto più che sufficiente per trarre profitto dall’attività (il chè era impensabile solo un anno fa).

Occorre precisare che nel mese di Dicembre si sono verificati nuovi cali della produzione in alcune aree estrattive, a testimonianza di una ripresa ancora incerta. Al contrario il giacimento del Permiano, collocato tra la parte occidentale del Texas e il New Mexico, continua a mostrare segnali più che positivi, quali l’aumento del numero di piattaforme attive e il conseguente miglioramento della produttività stimato in 27.000 barili al giorno in più rispetto a Novembre.

Il maggiore produttore di questo bacino, con il suo 13% rispetto al totale di petrolio estratto, è Occidental Petroleum (OXY).

OXY, Occidental petrolium, analisi tecnica medio periodo

Per il 2017, dunque, diventa interessante seguire le vicende legate alle grandi aziende produttrici di shale oil, considerando seriamente l’ipotesi di investire in esse, pur ricordando come sia necessario porre grande attenzione alle reali intenzioni dei paesi OPEC (non sempre quanto affermato è stato poi realizzato) e soprattutto come questa ripresa della produttività statunitense potrebbe bloccare l’attuale spinta rialzista al prezzo per il petrolio.

mercoledì 6 maggio 2015

Il petrolio sale vero i 70$ dopo l'aumento dell'Arabia sui prezzi

Il petrolio continua a salire superando i 68$ al barile dopo l'aumento dei prezzi ufficili di vendita dell'Arabia Saudita in risposta alla debolezza attuale e rinvigorite anche dal deprezzamento del dollaro, che su base settimanale mostra un calo dello 0,3% contro le principali valute. Il Wti americano ha sfondato stamane la soglia dei 62 dollari, toccando un massimo giornaliero di 62,05 dollari al barile, così come il Brent che è salito fin quasi ai 69 dollari per poi attestarsi intorno ai 68.50 $ al barile.

La produzione dell'Arabia Saudita tocca un massimo storico, questo secondo le parole del ministro del petrolio Ali al-Naimi spiegando che a marzo l'output di oro nero ha raggiunto 10,3 milioni di barili al giorno, ovvero un incremento di 450 mila barili rispetto ai livelli di febbraio. Il ministro ha poi aggiunto che l'Arabia Saudita è pronta a operare per migliorare la situazione, sottolineando tuttavia l'importanza della cooperazione tra gli stati Opec e quelli non Opec.



Il Brent del Mar del Nord, punto di riferimento internazionale, ha rimbalzato del 50 per cento dalla caduta che portò il prezzo al livello di 45 dollari al barile nel mese di gennaio. L’ultima volta che il petrolio del Mare del Nord ha superato questo livello era stato il 10 dicembre 2014, quando il prezzo era di 67,24 dollari. L'Arabia Saudita, il più grande esportatore mondiale di greggio, Martedì ha aggiunto che non ha intenzione di frenare la propria produzione ma che si sta preparando ad espandere la propria quota di mercato.

Questi fattori portano tutti nella direzione che sostengono le quotazioni, dopo che quelle del Brent sono cresciute del 20% ad aprile e del 25% per il Wti. Ma attenzione al rapporto tra i prezzi attuali e quelli pre-rally delle ultime 14 sedute. Segnalano una corsa un pò troppo veloce per il mercato del greggio, non del tutto sostenuta dai fondamentali.

Mentre i prezzi sono aumentati di più di 10 nell'ultimo mese, nel quadro più ampio, il petrolio è ancora a buon mercato rispetto agli ultimi anni, avrebbe riferito una società di consulenza di petrolio con sede a Londra. Tuttavia, alcuni trader pensano che il rialzo dei prezzi potrebbe essere arrivato troppo velocemente. EOG Resources, il più grande produttore statunitense di scisto, ha detto questa settimana che avrebbe ripreso il fracking nei pozzi in Nord Dakota e Texas se i prezzi si fossero stabilizzati intorno 65 dollari al barile.

EOG Resources ha anche dichiarato a febbraio che avrebbe perforato in oltre 85 pozzi quest'anno, in attesa che i prezzi recuperassero. Anadarko Petroleum (APC) ha detto di voler fare lo stesso con oltre 125 pozzi quest'anno.

Il recente rally è stato potenziato anche dagli hedge fund e altri grandi investitori che hanno investito sul recupero del Brent, accumulando l'equivalente di più di 275m di barili di petrolio attraverso futures e opzioni. I fondi hanno anche costruito una grande posizione sul lungo periodo sul Nymex. I flussi rimangono critici nel mercato petrolifero, ha dichiarato Adam Longson, analista di Morgan Stanley.

martedì 28 aprile 2015

Investire nel petrolio, taglio dei costi dell'industrie del settore

Ormai è noto a tutti che l'Autunno 2014 è stato veramente nero per il petrolio, i prezzi sono scesi ai minimi storici, sotto la soglia in cui i produttori a conti fatti, addirittura ci perdevano. Abbiamo discusso negli articoli precedenti di come il problema iniziale fosse il no dell'OPEC ad un taglio della produzione che avrebbe aiutato i prezzi a risalire. Ad inizio 2015 sembra che la svolta ci sia stata: nonostante l’Opec non abbia trovato una soluzione e tagliato la produzione, i prezzi del barile del petrolio hanno cominciato lentamente a risalire, ed in queste settimane si aggirano ai massimi dal dicembre 2014. Il prezzo del Brent è aumentato di più del 16% finora ad aprile, con alcuni investitori che ritengono che il minimo sia già stato toccato, dopo un lungo crollo dei prezzi del petrolio durato nove mesi, anche se comunque si è lontanissimi dai livelli del giugno 2014, quando un barile veniva scambiato anche a 116 dollari.

Ma come si comportano le aziende del settore di fronte a questi mesi di prezzi ridotti all'osso ? Il dollaro americano più debole e i forti indicatori economici in Europa e in Asia prestano sostegno ai prezzi del petrolio, alcuni analisti stanno arrivando ad una conclusione paradossale: pensano sia meglio quando i prezzi sono bassi rispetto a quando sono alti. Non siamo del tutto d'accordo, certo i prezzi bassi aiutano i consumi, come accenato nel nostro articolo della settimana scorsa, ma il petrolio è sempre stato un business e ci sono importanti ragioni per cui le grandi compagnie petrolifere internazionali come ExxonMobil (XOM), Total e BP siano positive nei confronti delle prospettive future.



Il crollo dei prezzi del greggio ha scatenato una spinta senza precedenti da parte delle compagnie petrolifere nel riconfigurare le proprie organizzazioni e ripristinare i rapporti con i fornitori e governi. Prima di tutto si pensa a ridurre i costi, quando i prezzi del petrolio erano alti e in aumento, le aziende avevano dimenticato questo strumento potentissimo, il taglio dei costi, finchè il petrolio fluiva nei loro pozzi e gli introiti erano enormi hanno pensano bene di evitare i tagli. L'industria era a caccia di barili, ora è a caccia di efficienza.

Il gruppo di ricerca Baker Hughes ha riferito venerdì che il numero di impianti di estrazione di petrolio negli Stati Uniti è sceso di 31 unità la scorsa settimana a 703 unità, il numero più basso da ottobre 2010. E' la 20esima settimana consecutiva di calo del numero di impianti negli USA. Investitori e trader osservano con attenzione il calo del numero di impianti negli ultimi mesi in cerca di segnali chiari sulla riduzione del surplus di offerta che influisce al ribasso sul prezzo del petrolio.

Il rendimento medio del capitale delle maggiori compagnie petrolifere europee e statunitensi è sceso dal 21 per cento nel 2000 all'11 per cento nel 2013, anche se il prezzo medio di riferimento del Brent è passato da 29 a 109 dollari per barile nel corso di tale periodo. L'aumento dei costi ha più che compensato l'incremento dei ricavi.

Il gruppo petrolifero francese Total (TOT), per esempio, ha registrato nel primo trimestre un utile netto in forte calo (-20%) a 2,66 miliardi di dollari rispetto ai 3,34 dello stesso periodo dell’anno precedente. Il valore invece adjusted, pulito dalle voci non ricorrenti, è stato di 2,6 miliardi di dollari (3,33 miliardi nel primo trimestre 2014). Patrick Pouyanne, amministratore delegato dell'azienda, ha detto alla conferenza di industria petrolifera IHS CeraWeek a Houston la scorsa settimana: Dobbiamo prendere questo periodo difficile come un'opportunità per ripulire la nostra industria. Nel caso di Total significa abbassare il livello di prezzo al quale le entrate coprono costi da 110 a 70 dollari al barile. Mr Pouyanne continua dicendo che tutta l'azienda capisce l'importanza di ciò che stanno facendo. E 'molto più facile muoversi a 50 dollari al barile di quanto lo fosse l'anno scorso a 100 dollari al barile, a volte il comitato esecutivo ha avuto l'impressione che non siano stati del tutto ascoltati, oggi lo sono.

Altre aziende stanno intraprendendo simili alternative. Stephen Chazen, amministratore delegato di Occidental Petroleum, ha detto alla stessa conferenza: Dobbiamo essere in grado di sopravvivere, non solo a 60 dollari, ma anche a meno. Il modo più semplice per le aziende di produzione di petrolio di ridurre i loro costi è quello di chiedere aiuto anche ai fornitori. Le grandi aziende infatti hanno chiesto a tutti i loro fornitori tagli di tassi. Questa pressione sui costi però, oltre a ridurre le perdite, ha un costo umano altissimo, la pressione sulle società di servizi si ripercuotono sui posti di lavoro, 20.000 licenziamenti a Schlumberger, 10.500 da Baker Hughes e 9.000 da Halliburton (HAL).

Non solo in America comunque le industrie si stanno muovendo, il governo del Regno Unito il mese scorso ha annunciato un taglio netto delle imposte sul petrolio del Mare del Nord e del profitto dal gas, invertendo un aumento introdotto nel 2011. Il governo iracheno ha detto che prevede di rivedere i contratti con le compagnie petrolifere straniere per rendere le condizioni più attraenti. Ci vorranno anni prima che gli effetti di tutti questi cambiamenti portino a seri cambiamenti. La possibilità di aumentare i profitti col recupero del prezzo del petrolio è reale. Il colpo duro subito dal settore del petrolio potrebbe rivelarsi una ottima terapia di cui aveva bisogno.

venerdì 29 agosto 2014

Investire in ETF: I 3 migliori da acquistare con gli stimoli monetari

Dopo che il Presidente della Banca centrale europea (BCE), Mario Draghi, ha comunicato che il tanto atteso quantitative easing sarebbe pronto, qual'ora l'ambiente deflazionistico dovesse peggiorare, indicando che la BCE è pronta ad intervenire con tutti i mezzi a disposizione. Gli investitori hanno percepito questa affermazione come il probabile inizio di un programma di riacquisto di asset o altro tipo di programma di stimolo. Questa percezione ha spinto le borse europee verso i picchi più alti di questo mese. Diversi indici nazionali sono aumentati dell'1%.

L'euforia degli investitori è giustificata in quanto il denaro a basso costo atteso dalla BCE dovrebbe essere un vantaggio per le Borse europee che, dopo aver visto qualche raggio di speranza lo scorso anno, hanno ricominciato a languire quest'anno a causa delle preoccupazioni deflazionistiche. L'efficacia di precedenti QE si è dimostrata estremamente vantaggiosa per il mercato statunitense e giapponese. Durante il periodo del QE, l'indice di riferimento chiave USA, lo S&P 500, è salito alle stelle di circa il 175%. L'economia statunitense ha ottenuto una buona spinta, il che ha portato la Fed a concludere il suo programma quest'anno. Un altro esempio è il modello giapponese che fondamentalmente ricorda i problemi della zona euro. Il Giappone è stato appesantito da una striscia deflazionistica di 15 anni e da una crescita debole. Per combattere la situazione, nell'aprile 2013, la Banca del Giappone ha promosso 1.400 miliardi di dollari di allentamento quantitativo per raggiungere un tasso di inflazione del 2% entro due anni. L'indice di riferimento chiave giapponese, il Nikkei, è salito del 25% circa.
Il QE è una forma di stimolo monetario, applicabile quando qualsiasi altro sostegno monetario non riesce a fornire lo slancio necessario agli indicatori economici.
Ai primi di giugno, la BCE ha annunciato un taglio del tasso di riferimento allo 0,15% dallo 0,25%, inoltre, ha introdotto un tasso di deposito del -0,1% precedentemente tenuto allo zero per cento, il primo caso di tasso di interesse negativo per una grande banca centrale. L'inflazione annuale è scivolata al minimo di 5 anni nel mese di luglio, lo 0,4% in quel mese, in calo dallo 0,5% di giugno e dall'1,6% del mese di luglio 2013. I tassi di inflazione negativi sono stati notati in Grecia, Portogallo, Spagna e Slovacchia. La BCE segue come direttiva il mantenimento dell'inflazione vicino al 2%.

Dopo la pubblicazione del tasso di crescita dello 0,2% nel 1° trimestre, il PIL della zona euro in fase di stallo nel Q2, conferma che l'economia della regione sta perdendo forza. Il principale motore della zona Euro, l'economia tedesca, si è infatti indebolita nel Q2, la seconda più grande economia della zona euro, la Francia, è in fase di stallo e la terza, l'Italia, è già scivolata in recessione.

Nuovi guai bancari sono esplosi in Portogallo e la disoccupazione nel mese di luglio ha raggiunto circa l'11,5% secondo i dati Bloomberg, non lontano dal livello record del 12% toccato lo scorso anno. Sebbene Draghi non parli esplicitamente di QE nel suo discorso del 22 Agosto e fà ancora affidamento sulle misure politiche adottate nel mese di giugno, per ravvivare i numeri dell'inflazione e della crescita dell'area Euro, un ulteriore deterioramento delle prospettive di inflazione a medio termine potrebbero costringerlo ad intraprendere il QE. La maggior parte degli ETF azionari europei hanno guadagnato in seguito al commento di Draghi. Lo Stoxx 600 ha registrato il più grande guadagno (più del 2%) dal mese di febbraio, riflettendo l'ottimismo degli investitori circa l'introduzione del programma di acquisto di asset.

Per coloro che sono interessati a partecipare a questa euforica attesa del QE, ecco tre ETF:



db X-trackers MSCI Germany Hedged Equity Fund (DBGR)
Anche se la Germania si è afflosciata nel Q2, la sua economia è più robusta rispetto ai suoi vicini della zona euro. Quindi, è meglio concentrarsi su un ETF tedesco senza esposizione in Euro, in quanto un eventuale allentamento renderebbe la moneta più debole. Le quotazioni sono risultati di investimento che corrispondono generalmente alle prestazioni, al lordo di commissioni e spese, del MSCI Germany US Dollar Hedged Index. L'indice è progettato per fornire un'esposizione nei mercati azionari tedeschi e allo stesso tempo mitigare l'esposizione alle fluttuazioni tra il valore del dollaro e dell'Euro. Il fondo di norma investirà almeno l'80% del suo patrimonio netto, più l'importo di eventuali prestiti a fini di investimento, in titoli azionari tedeschi e negli strumenti destinati a coprire l'esposizione del fondo all'Euro. Il fondo si concentra principalmente sui settori delle Materie prime, Beni di consumo ciclici, finanziari, salute e Beni Industriali.

Ripartizione Geografica
Europa Occidentale - Euro 100,00%
Ripartizione Settoriale
Materie prime 15,73
Beni di consumo ciclici 19,02
Finanza 17,18
Immobiliare 0,54
Beni di consumo difensivi 1,79
Salute 14,32
Servizi di pubblica utilità 5,07
Servizi di comunicazione 5,33
Beni industriali 13,21
Tecnologia 7,81

iShares MSCI USA ETF (EWU)
L'ETF mira a monitorare i risultati di un indice composto da titoli azionari del Regno Unito. Il fondo monitorizza i risultati di investimento del MSCI United Kingdom Index, che consiste in azioni scambiate principalmente sul London Stock Exchange. Investirà almeno il 90% del suo patrimonio in titoli dell'indice e in certificati di deposito ("DRS") rappresentativi dei titoli dell'indice stesso.

Ripartizione Geografica
Regno Unito 99,60
Stati Uniti 0,24
Ripartizione Settoriale
Materie prime 9,70
Beni di consumo ciclici 7,54
Finanza 21,00
Immobiliare 1,48
Beni di consumo difensivi 16,41
Salute 9,46
Servizi di pubblica utilità 4,30
Servizi alla comunicazione 5,58
Energia 17,23
Beni industriali 6,28
Tecnologia 1,03

Vanguard FTSE Europe ETF (VGK)
L'ETF mira a replicare la performance di un indice di riferimento che misura il rendimento dei titoli emessi da società con sede nei principali mercati europei. Il fondo impiega un approccio d'investimento ad indicizzazione investendo tutto, o quasi tutto, il suo patrimonio in azioni ordinarie incluse nel FTSE Developed Europe Index. Il FTSE Developed Europe Index è composto da circa 500 azioni ordinarie di società situate in 16 paesi europei, per lo più società del Regno Unito, Francia, Svizzera e Germania.

Ripartizione Geografica
Regno Unito 33,41
Europa Occidentale - Euro 44,33
Europa Occidentale - Non Euro 21,97
Ripartizione Settoriale
Materie prime 9,27
Beni di consumo ciclici 8,88
Finanza 20,99
Immobiliare 1,19
Beni di consumo difensivi 12,94
Salute 13,22
Servizi di pubblica utilità 4,25
Servizi alla comunicazione 5,26
Energia 9,68
Beni industriali 10,41
Tecnologia 3,91

martedì 26 gennaio 2010

Saranno gli accordi petroliferi iracheni l'impulso per gli ETF energetici ?

Lunedì le notizie di attentati coordinati a Baghdad avevano fatto scalpore in tutto il mondo, mettendo in evidenza la continua violenza che continua in Iraq. Sempre Lunedì, il governo ha riferito che l'uomo conosciuto come "Ali il chimico", uno degli alleati più spietato di Saddam Hussein, è stato giustiziato per crimini contro l'umanità. Ha ricevuto molta meno attenzione una notizia che potrebbe avere un impatto significativo sull'economia irachena e il mercato mondiale del petrolio greggio.

Un consorzio composto da Exxon Mobil e Royal Dutch PLC ha riferito d'aver concluso un accordo con il governo iracheno per sviluppare la massiccia fase di West Qurna 1,un giacimento petrolifero nel sud dell'Iraq, un segno positivo di progresso per introdurre tecnologie avanzate occidentali ad una delle regioni più ricche di petrolio nel mondo. L'accordo rappresenta la prima volta di un gruppo statunitense a cui è stato concesso di entrare nell'industria petrolifera irachena. Exxon Mobil ha una partecipazione dell'80% nella joint venture, mentre Shell detiene il restante 20%.

L'anno scorso, il governo iracheno ha tenuto un asta per i diritti di sviluppo di giacimenti petroliferi nel tentativo di ricostruire il paese devastato economicamente dopo la guerra. Exxon e Shell avevano inizialmente proposto un accordo in base al quale all'impresa sarebbe stato pagato 4 dollari per ogni barile di petrolio estratto al di sopra del livello attuale di produzione. Il governo ha respinto la proposta, e in ultima analisi, le due parti hanno concordato una tariffa di 1,90 dollari al barile. Exxon-Shell potrebbero aumentare la produzione a più di 2,3 milioni di barili al giorno, un significativo incremento dai 279.000 barili prodotti attualmente.

ETF petroliferi in primo piano
In termini di ricavi di produzione di petrolio, l'affare è relativamente piccolo sia per Exxon che Shell. La joint venture infatti è in grado di aumentare la produzione, come previsto, di circa 4 milioni di dollari al giorno. Supponendo che in un anno di produzione il West Qurna potrebbe generare 1,4 miliardi dollari all'anno, pari a meno dello 0,5% delle attuali entrate annuali di Exxon. In aggiunta ci sarà il costo del lavoro, l'impresa infatti dovrà assicurare tutti i dipendenti e le attrezzature in un ambiente estremamente rischioso.

Mentre questo particolare accordo non accrescerà materialmente gli utili delle società, il valore reale potrebbe trovarsi in un punto d'appoggio nel mercato iracheno. Si stima che l'Iraq ha ben più di 100 miliardi di barili di riserve accertate di petrolio, una delle forniture più grandi del mondo. Ma alle società occidentali a lungo è stato proibito di fare affari nel paese, costringendo le grandi del petrolio a cercare il greggio in più remote e in genere più costose località.

Il potenziale lucrativo quindi è enorme. Dopo anni di violenze, sabotaggi, e la corruzione politica, l'industria del petrolio iracheno è nel caos, la produzione di petrolio grezzo è drasticamente diminuita dopo la guerra degli Stati Uniti. Se il piano di collaborare con Exxon e Shell si dimostrasse efficace, potrebbe rappresentare il primo di molti altri di prossima esecuzione.

Uno sguardo agli ETF
La stabilità in Iraq resta in gran parte legata al settore petrolifero. Mentre la partnership con le aziende occidentali potrebbe portare ad una controversia negli stati medio-orientali, può anche fornire necessarie riserve di cassa per un governo di fronte a numerose sfide costose. Gli investitori saranno curiosi di vedere come questa situazione si svilupperà, come il risultato si potrebbe ripercuotere nell'economia mondiale.

Tre interessanti ETF che potrebbe giovarsi della nuova situazione in Iraq:

iShares S&P Global Energy Index Fund (IXC): l'elenco delle aziende di questo ETF sono grandi compagnie petrolifere: Exxon, BP, Chevron, Total, Shell, ConocoPhillips. Le quali costituiscono quasi la metà del patrimonio complessivo. Se l'accordo avrà successo, le compagnie petrolifere occidentali (insieme con le loro tecnologie di estrazione) potrebbero essere le benvenute in Iraq.



United States Oil Fund (OSU): Gli ulteriori due milioni di barili di petrolio al giorno, sono una goccia nel mare globale, le forniture non aumenteranno i prezzi e non precipiteranno su questo affare. Ma se l'Iraq sarà in zona di lancio nei prossimi anni, i prezzi potrebbero trovarsi sotto pressione. USCF offre anche un fondo sul petrolio a breve termine (DNO) progettato per rispecchiare le variazioni nei prezzi del greggio.



Dow Jones US Oil & Gas Exploration & Production Index Fund (IEO): Negli ultimi anni, le compagnie petrolifere di grandi dimensioni hanno rivolto la loro attenzione a giacimenti di petrolio offshore, investendo pesantemente nella scoperta di nuove riserve in luoghi precedentemente intatti. Se l'Iraq apre le sue porte, può stimolare un cambiamento di strategia che in ultima analisi, impatterà sulle società impegnate in esplorazione e produzione.