Lo shale oil è una particolare tipologia di petrolio derivante dai frammenti di rocce di scisto bituminoso presenti nel sottosuolo e prodotto mediante complessi processi chimici che convertono la materia organica all’interno della roccia in petrolio e gas sintetico. Esso viene poi usato come combustibile (principalmente come olio per riscaldamento e carburante marino) e in misura minore nella produzione di varie sostanze chimiche.
Gli Stati Uniti nell’ultimo decennio hanno puntato molto sullo shale oil (e in parallelo sullo shale gas) per raggiungere l’indipendenza energetica, tanto da investire 200 miliardi di dollari dal 2003 in poi in equipaggiamenti e macchinari di estrazione. Proprio nel momento più fiorente per questa moderna attività, però, si è verificata la ben nota crisi di sovrapproduzione petrolifera, con il crollo del suo prezzo sino ai minimi di 28,50$ al barile di inizio 2016 che ha portato alla bancarotta di un terzo degli operatori di questo nuovo settore, sin troppo esposti finanziariamente e incapaci dunque di adempiere alle loro obbligazioni a seguito delle gravi perdite di liquidità subite (non sostenute in alcun modo dalle varie linee di credito che hanno deciso di sospendere ogni forma di prestito).
Dopo più di un anno di tagli della produzione di shale oil, le aziende produttrici sembrerebbero finalmente essere in grado di invertire la tendenza: è stata infatti annunciata la produzione complessiva di 2,000 barili al giorno in più a partire dal Gennaio 2017, per un totale di 4542 milioni di barili quotidiani.
Il 30 Novembre 2016 è stata una data fondamentale in quanto si è raggiunto uno storico accordo tra i paesi membri dell’OPEC, i quali ridurranno la produzione di 1,2 milioni di barili al giorno. Inoltre gli stessi i paesi non-OPEC realizzeranno imponenti tagli alla produzione, guidati dall’importante collaborazione in tal senso garantita dai russi, così da esserci la possibilità concreta che il mercato del greggio giunga ad una condizione di deficit per la prima metà dell’anno nuovo.
Questa serie di spinte rialziste al prezzo del petrolio non può far altro che giovare agli interessi dei produttori di shale oil, i quali a loro volta nel frattempo hanno migliorato notevolmente le tecniche di estrazione, abbassandone i costi del 40% (in alcune aree anche più del 50%) tanto da ridurre il punto di pareggio tra costi e ricavi al punto tale che un prezzo di 50$ al barile è divenuto più che sufficiente per trarre profitto dall’attività (il chè era impensabile solo un anno fa).
Occorre precisare che nel mese di Dicembre si sono verificati nuovi cali della produzione in alcune aree estrattive, a testimonianza di una ripresa ancora incerta. Al contrario il giacimento del Permiano, collocato tra la parte occidentale del Texas e il New Mexico, continua a mostrare segnali più che positivi, quali l’aumento del numero di piattaforme attive e il conseguente miglioramento della produttività stimato in 27.000 barili al giorno in più rispetto a Novembre.
Il maggiore produttore di questo bacino, con il suo 13% rispetto al totale di petrolio estratto, è Occidental Petroleum (OXY).
Per il 2017, dunque, diventa interessante seguire le vicende legate alle grandi aziende produttrici di shale oil, considerando seriamente l’ipotesi di investire in esse, pur ricordando come sia necessario porre grande attenzione alle reali intenzioni dei paesi OPEC (non sempre quanto affermato è stato poi realizzato) e soprattutto come questa ripresa della produttività statunitense potrebbe bloccare l’attuale spinta rialzista al prezzo per il petrolio.