Oggi, le azioni Pfizer (PFE) si aggirano su livelli che non si vedevano dal 2012. Il titolo è tra i meno valutati del settore in termini di multipli di utile, e la maggior parte degli analisti monitorati da FactSet consiglia di mantenerlo in portafoglio (Hold), ma senza grande entusiasmo.
Martedì l’azienda pubblicherà i risultati del primo trimestre e i dirigenti cercheranno di rassicurare gli investitori — un compito tutt'altro che semplice.
A inizio settimana, le azioni Pfizer risultavano in calo del 14% da inizio anno e dell’11% rispetto allo stesso periodo del 2024. La chiusura del 10 aprile, a 21,59 dollari, ha segnato il minimo da luglio 2012.
Uno dei potenziali motori di crescita, il farmaco orale per l’obesità danuglipron, è stato abbandonato il 14 aprile a causa di rischi epatici. L’obiettivo di entrare nel redditizio mercato dell’obesità si è quindi rivelato, finora, una serie di delusioni a partire dal 2023.
Per il primo trimestre, gli analisti stimano ricavi per 13,9 miliardi di dollari e un utile per azione di 0,67 dollari — in calo del 19% rispetto ai 0,82 dollari dello stesso periodo dell’anno scorso.
David Risinger, analista di Leerink Partners, ha recentemente ridotto la sua stima sugli utili a 0,59 dollari per azione, dopo che Bristol Myers Squibb (partner di Pfizer per Eliquis) ha riportato vendite deludenti del noto anticoagulante.
Pfizer prevede per l’intero 2025 ricavi tra 61 e 64 miliardi di dollari, con un utile rettificato per azione tra 2,80 e 3 dollari. Tuttavia, il quadro si complica: l’azienda è minacciata da numerose scadenze brevettuali che peseranno sui ricavi fino a fine decennio.
A preoccupare anche fattori esterni: da un lato, l’eventualità di dazi specifici per il settore farmaceutico promessi da Donald Trump; dall’altro, le crescenti pressioni politiche per la riforma dei prezzi dei farmaci, incluse le trattative sul prezzo dei medicinali rimborsati da Medicare.
Gli alleati di Donald Trump stanno rilanciando una proposta della sua prima amministrazione che potrebbe rivoluzionare il sistema dei prezzi dei farmaci negli Stati Uniti. L’iniziativa metterebbe alla prova la nuova strategia adottata dal settore farmaceutico, che punta a evitare scontri diretti con l’ex presidente nella speranza di influenzarne le future politiche.
La proposta prevede di allineare i prezzi dei farmaci rimborsati dal governo federale ai livelli più bassi registrati nei Paesi economicamente avanzati. Poiché negli Stati Uniti i prezzi sono spesso nettamente superiori rispetto a quelli europei o canadesi, una misura del genere implicherebbe sconti significativi.
L’idea è riemersa venerdì in un documento pubblicato dall’America First Policy Institute, un think tank molto vicino all’ex amministrazione Trump. Il documento, dal titolo eloquente “Putting Americans First by Ending Global Freeloading” (“Prima gli americani: basta con il parassitismo globale”), propone diverse modalità di attuazione della cosiddetta politica della nazione più favorita, inclusa la sua integrazione nel programma di negoziazione dei prezzi di Medicare, già avviato sotto la presidenza Biden.
Durante il primo mandato di Trump, tentativi simili erano stati bloccati da cause legali intentate da PhRMA, il potente gruppo di lobby dell’industria farmaceutica. Oggi però, il settore sembra aver adottato un approccio più conciliante: anziché opporsi pubblicamente, le aziende sperano di ottenere l’appoggio del candidato repubblicano su temi più favorevoli, come la riduzione degli sconti versati ai gestori dei benefit farmaceutici (PBM).
Tuttavia, se una nuova amministrazione Trump dovesse effettivamente reintrodurre questa politica, l’industria si troverebbe in una posizione difficile. Le conseguenze economiche potrebbero essere ingenti, con perdite stimate in miliardi di dollari ogni anno, a seconda dei dettagli della riforma.
Interpellata sulla proposta, la portavoce di PhRMA Sarah Ryan ha evitato critiche dirette, limitandosi a sottolineare un problema strutturale: “Alcuni Paesi non pagano la loro giusta quota per l’innovazione, il che compromette lo sviluppo futuro di cure. Inoltre, più della metà di ogni dollaro speso per i farmaci negli USA finisce a soggetti che non producono medicinali, come PBM, assicurazioni, ospedali e altri intermediari”.
La Casa Bianca non ha rilasciato dichiarazioni sul documento, che al momento resta un’iniziativa da think tank e non una proposta ufficiale. Tuttavia, segnali recenti indicano un rinnovato interesse dell’area Trump sul tema. A fine gennaio, l’ex presidente ha pubblicato su Truth Social un messaggio inequivocabile: “AMERICA FIRST DRUG PRICES!!!”
Durante la sua presidenza, Trump firmò un ordine esecutivo nel settembre 2020 per testare un modello di tariffazione basato sul principio della nazione più favorita. La regola, però, fu bloccata da un ricorso legale e successivamente revocata dalla presidenza Biden nel 2021.
Nel 2023, la campagna elettorale di Trump aveva promesso di ripristinare la misura fin dal primo giorno di un eventuale secondo mandato, ma nell’ottobre 2024 ha fatto marcia indietro, dichiarando a STAT News che “non c’è stata alcuna spinta a rinnovare la politica”.
Ora, con il nuovo documento dell’America First Policy Institute, la questione sembra tornare sul tavolo. Il linguaggio riprende esplicitamente le promesse del 2023, alimentando i dubbi su un possibile ritorno di una politica che potrebbe ridefinire profondamente il mercato farmaceutico statunitense.