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martedì 3 settembre 2013

Le recessioni del 1973,1980,1990,2000,2008 sono state causate dall'alto prezzo del petrolio

In Libia gli scioperi dei lavoratori petroliferi hanno ridotto la produzione giornaliera di greggio drasticamente da 1,6 milioni di barili al giorno a circa 250.000 barili al giorno. In Iraq ci sono stati bombardamenti sulle condotte che hanno interrotto la produzione e la minaccia di mettere un tappo sulla capacità dell'Iraq di aumentare la produzione di petrolio. In Nigeria la produzione è diminuita del 10% al giorno a causa di perdite causate dal saccheggio del petrolio da sobillatori politici.

A 107 dollari al barile per il greggio del West Texas e 117 dollari al barile per il Brent in Europa, noi ovviamente siamo molto lontani dal picco del prezzo del petrolio nel mese di luglio 2008, che è salito proprio alla vigilia della crisi finanziaria, la grande recessione e la riduzione della capacità di acquisto da parte dei consumatori americani.

Andamento del petrolio dal 1970 ad oggi con le cifre nei periodi recessivi

Il punto di rottura problematico potrebbe essere il picco di 120 dollari al barile causato dall'alta probabilità che l'America invierà alcuni missili da crociera in Siria, destinata a creare una tale tensione capace di dar il via alla speculazione del greggio. Lo scenario peggiore sarebbe la diffusione di azioni violente ad altre nazioni del Medio Oriente.

Kirk Spano, fondatore di Bluemound Asset ha contribuito in questi giorni a ricordare come, minori o maggiori, recessioni economiche del 1973-4, 1980-81, 1991-92, 2001-2003 e 2007-08 siano state dolorose per tutti gli investitori azionari. Lo stesso ha voluto mettere in guardia gli investitori che nelle prossime settimane si sta andando verso la possibilità allarmastica di uno scontro a fuoco in Siria.

Egli suggerire che i prezzi del greggio potrebbero tornare a 150 dollari al barile, prezzo raggiunto nel luglio 2008, o addirittura puntare ad un immaginario collettivo ancora più grave, i prezzi del petrolio a 200 dollari al barile. A 200 dollari al barile, le economie emergenti del Sud-Est asiatico sarebbero gravemente colpite in un momento delicato per l'economia mondiale.

Se si guarda a un grafico, l'ascesa e la caduta dei prezzi del petrolio hanno sempre fatto calare i profitti delle azioni. George Soros ha rilasciato un comunicato in cui da come target il petrolio a breve a 137 dollari al barile e sul lunghissimo periodo a 900 dollari l'oncia per una delle sue migliori posizioni sul lunghissimo periodo di sempre. Da gennaio 2009 i prezzi del greggio sono scesi di circa il 75%.

La volatilità deve essere tenuta a mente durante il periodo della crisi siriana. Inoltre, non dobbiamo dimenticare le mini-crisi che accadono nei paesi produttori di petrolio come l'Iraq, la Libia e la Nigeria.

giovedì 29 agosto 2013

La crisi siriana e dei mercati emergenti darà il via ad una nuova recessione ?

Il copione è pronto per il resto del 2013. Diamo uno sguardo in autunno, la Federal Reserve avrebbe lentamente iniziato a calare il "buy bond" da 85 miliardi di dollari o quantitative easing che in questi anni ha pompatp denaro fresco nei mercati. I rendimenti obbligazionari avrebbero iniziato a salire lentamente. L'economia avrebbe balbettato, ma alla fine si sarebbe arresa all'evidenza, non si può immettere denaro per sempre nel mercato senza poi pagarne lo scotto, e la politica monetaria avrebbe cominciato lentamente a tornare alla normalità.

Il problema è che la storia non sta andando nel modo in cui avrebbe voluto la fed. La minaccia di una fine del QE negli Stati Uniti aveva iniziato a creare una crisi nei mercati emergenti. Ora la minaccia di un'azione militare in Siria intensificherà la spirale verso il basso. Che tra l'altro sta per diffondersi anche nell'Europa quasi fuori dalla crisi, con i paesi periferici già pronti a lamentare problemi di risanamento.

Mentre l'agitazione in Siria sale sempre di più, la crescita globale pagherà una depressione. Il risultato ? La Fed proseguirà a stampare soldi più a lungo di quanto previsto, non avrà altra scelta.

Per tutta la scorsa settimana, i mercati emergenti hanno iniziato a traballare. L'India sembrava di entrare in una crisi finanziaria in piena regola con la Rupia che continua a toccare minimi storici. Lungi dal trasformarsi in una superpotenza economica - come doveva essere quando i BRIC erano di gran moda - ora invece siamo di fronte ad un caso disperato. La crescita ha subito un rallentamento, l'inflazione è in aumento e il governo è spaventato da grossi deficit (ma non l'avevamo già sentita questa ?). Il capitale sta cominciando a lasciare il paese.



Il Brasile non è in forma molto migliore. La scorsa settimana la banca centrale ha dovuto "buttare" 60 miliardi dollari per puntellare la valuta USDBRL dopo essere scesa al minimo di cinque anni contro il dollaro.

La crisi sta cominciando a diffondersi in altri importanti mercati. In Turchia è già partita attraverso una ribellione politica e ora c'è lo sconvolgimento economico, come da copione. La lira turca USDTRY è in caduta libera e le obbligazionaria a 10 anni solo salite al di sopra del 10%. I titoli indonesiani JAKIDX sono sceso del 5% in una sola seduta e sono stati gettati ai minimi del 2013. Gli investitori hanno paura e dopo anni di accumulo nei mercati emergenti portando fuori i capitali.

Ora c'è la prospettiva di un intervento militare da parte degli USA e della Gran Bretagna nella guerra civile in Siria. L'uso di armi chimiche lascia le grandi potenze con poca scelta: se accettiamo che i regimi brutali possono utilizzare gas contro la propria gente per rimanere al potere, allora il loro uso si diffonderà.

Il problema è che si tratta di un brutto momento per i mercati. Un intervento in Siria minaccia di sconvolgere il Medio Oriente e rilancia verso l'alto i prezzi del petrolio. Renderà gli investitori nervosi e se i russi continueranno ad insistere sul backup del regime di Assad ad oltranza, può persino trasformarsi in un conflitto ancora più grave di quanto chiunque abbia calcolato.

Le nuove economie in via di sviluppo sono sempre state volatili, e dopo più di un decennio di stabilità e di crescita un selloff era quasi matematico. La guerra civile in Siria sono mesi che attende la proverbiale goccia, ed è sempre improbabile che l'Occidente stia a guardare senza muovere un dito. Il problema è che sia la crisi dei mercati emergenti sia il conflitto siriano avranno due grandi conseguenze per il resto dell'economia mondiale.

La prima è che questi paesi sono molto più importanti di quelli di una volta. Il mondo non ha visto una vera e propria crisi dei mercati emergenti dal crollo finanziario asiatico del 1990. Sono stati in via di sviluppo fino ad oggi. Il risultato di oltre un decennio di crescita ininterrotta li hanno resi molto ricchi e rappresentano una quota di gran lunga maggiore del commercio mondiale rispetto qualche anno fa. Circa il 50% dell'economia mondiale è oggi rappresentato dai mercati emergenti. Se la crescita di quelle economie fosse crollata negli anni 90 il suo impatto sarebbe stato contenuto. Ora si rischia di far precipitare il mondo in recessione.

La seconda è che gran parte della zona euro è ora, a tutti gli effetti, un mercato emergente. I paesi periferici dell'Europa - Grecia, Cipro, Italia, Spagna, Portogallo e Irlanda - hanno molte delle stesse caratteristiche di nazioni come Thailandia e Malesia degli anni 90. Hanno enormi debiti in quello che è a tutti gli effetti una valuta - l'euro - su cui non hanno alcun controllo. Il capitale rischia di fuggire al primo segno di guai seri. Non hanno la possibilità di stampare la propria valuta per uscire dai guai.

Se la crisi dei mercati emergenti si diffonderà, e se un intervento militare in Siria spingerà verso l'alto il prezzo del petrolio, la zona euro sarà spinta in recessione molto rapidamente, il 70% dell'economia globale potrebbe essere a un punto morto.

Dove si colloca la Fed ? In una correzione. In realtà, gli Stati Uniti non possono semplicemente dare una spinta al problema dei mercati emergenti o di un conflitto in Medio Oriente considerandola una questione di poco conto. La propria crescita dipende dal commercio con quelle nazioni, e così è la stabilità del suo sistema bancario. Con nessuna espansione in questi mercati, la crescita USA evapora, e con essa il caso di un possibile tapering.

La lezione del Giappone è che è molto più facile iniziare il quantitative easing che fermarlo. La Federal Reserve sta per imparare la lezione. Nel corso delle prossime settimane, il "Septaper" sarà tranquillamente accantonato. Si può cercare di porre fine al QE in febbraio o marzo del prossimo anno - ma da allora qualche nuova crisi potrebbe essere alla porta.