Investire in azioni, perchè le persone hanno costantemente paura?
Più spesso di quanto possiate immaginare, siamo costretti, in abito finanziario, a prendere decisioni molto importanti, una di queste è sicuramente “quando vendere”. La paura di perdere denaro porta ad un processo decisionale sbagliato, è proprio questo processo che porta l’investitore a vendere le azioni dopo un crollo e ad acquistarle quando sono già ripartite dopo un grande rally.
Le preoccupazioni che stiamo vivendo in questo periodo derivano dalle valutazioni, molto alte, dei comparto azionario, in particolare dagli Stati Uniti dopo l’effetto Trump e le elezioni olandesi e francesi. Il timore si basa soprattutto sul fatto che le aziende americane hanno un prezzo di mercato più alto rispetto al tasso di crescita mostrato dalle ultime trimestrali. Anche se, come Société Générale osserva concisamente, una maggiore leva degli Stati Uniti è un altro motivo principale per cui la redditività degli Stati Uniti è più alta rispetto agli altri paesi.
Sono ormai vari trimestri che la paura di una correzione dei mercati domina le prime pagine dei media finanziari, eppure la borsa continua a salire e ieri lo S&P500 ha realizzato un nuovo record. La tendenza al rialzo, tra l’altro, questa settimana ha spinto l’indice FTSE All World in territorio record, mentre la volatilità azionaria statunitense, misurata dal CBOE Vix, è vicina al suo livello più basso dell’ultimo decennio. I più grandi timori di un crollo dei mercati hanno superato prove importanti come la Brexit, le elezioni di Donald Trump, trasformatosi poi in un periodo di crescita e il populismo europeo che sembra indietreggiare dopo le vittorie pro-Europa da parte di Austria, Olanda e Francia.
La fiducia instaurata dalla vittoria di Macron in Francia ha sostenuto i guadagni delle borse, soprattutto quella del CAC40 che ha mantenuto un grande vantaggio nei sondaggi prima del round finale di Domenica 7 Maggio sul voto delle elezioni presidenziali in Francia. Mentre i mercati della zona euro si sono goduti il momento di gloria – con le blue-chip del CAC40 salite al loro livello più alto dal 2008 – dobbiamo ragionare in termini di prospettive future.
L’effetto Trump sul futuro dell’America
Lo scoop del Washington Post sulle rilevazioni di notizie riservate alla Russia da parte di Donald Trump è un colpo alla credibilità del nuovo presidente americano che, secondo gli investitori, potrebbe pregiudicare l’attuazione del piano di rilancio infrastrutturale e gli stimoli fiscali promessi dalla nuova amministrazione, senza tener conto della possibilità, anche se lontana, di un impeachment.
Ciò farebbe venir meno il principale presupposto della scommessa che il mercato ha fatto dopo la vittoria di Trump. Una scommessa, in gergo chiamata Trump Reflation Trade, che si basa sull'aspettativa di una ripresa dell’inflazione per effetto della politica economica della nuova amministrazione e che, nei fatti, si è tradotta in un rafforzamento del dollaro (+3,3% la performance del biglietto verde tra novembre e dicembre), un rally della Borsa americana (proprio ieri gli indici S&P 500 e Nasdaq hanno aggiornato i loro massimi storici) e in un deprezzamento dei titoli di Stato.
I primi segnali negativi forti, li stiamo vedendo in questi giorni, un sell-off generale sui mercati di tutto il mondo con la stessa America che scende di quasi 2 punti percentuali nei tre indici più importanti.
Prima di una possibile risalita è possibile vedere un declino da qui ai prossimi giorni se non settimane, ma non siamo di fronte ad una correzione pesante al momento, è uno scenario di bassa probabilità. In generale la propensione al rischio sembra abbastanza forte per mantenere il mercato in una discesa calcolata di almeno 10 punti. Per concludere, fino a quando non avremo dati più certi che diano “fuoco” alla discesa, stiamo alla finestra e seguiamo i supporti dei più importanti indici mondiali.
I macro segnali più importanti
Dopo un primo trimestre debole per l’economia globale, abbiamo notato che tale debolezza si è rivelata transitoria. I macro successivi sono stati molto buoni, sia in America che in Europa e Giappone. Per questo motivo i funzionari di politica presso la Federal Reserve e BCE si stanno muovendo in modo adagio, i future sui tassi di interesse si sono rapidamente alzati vista la probabilità che questi si alzeranno nel mese di giugno in America.
Il nuovo crollo delle materie prime ha spinto il petrolio e metalli verso il basso ma poi sono arrivate le notizie dall’OPEC e non OPEC che hanno annunciato un prolungamento del taglio, questo fattore, unito a scorte più basse del previsto hanno ridato forza al prezzo del barile Brent, il quale ha spinto anche le altre materie prime verso l’alto ritaccando i 50$. Ma i grandi declini di minerali come il ferro e rame, sono guidati anche dalla compressione del prestito interbancario del mercato cinese. I prezzi delle azioni per le miniere e valute, come ad esempio il rublo russo, il rand sudafricano e il dollaro australiano e canadese sono scivolati verso il basso.
Mentre il paese cerca di ridurre la leva finanziaria per timore di una bolla del credito, il rischio di un calo della domanda di materie prime più debole cresce contro quella di un incidente finanziario molto più grande. Per gli investitori, una riduzione della leva finanziaria globale è la somma di tutte le paure.
La psicologia dell’investitore
Non siamo logici come si pensa e la nostra mente adotta spesso scorciatoie. Kahneman, padre fondatore della finanza comportamentale e premio Nobel per l’economia, individuando due tipologie di mente, quella intuitiva che prende decisioni molto velocemente, basate sulla percezione immediata, e quella razionale che richiede più tempo, ha dimostrato come spesso la prima sia superiore alla seconda e questo è un killer delle decisioni di investimento e di una corretta pianificazione.
Alberto D’Avenia, Country Head Italia di Allianz Global Investors.
Il Test di psico-economia realizzato da Schroders in partnership scientifica con Matteo Motterlini, Direttore del CRESA (Centro di Ricerca in Epistemologia Sperimentale e Applicata – Università Vita-Salute San Raffaele), che per la prima volta in Italia traduce in azione la finanza comportamentale, con l’obiettivo di mettere i principi teorici di questa disciplina concretamente al servizio di promotori, banker e investitori finali.
A distanza di anni dallo scoppio della crisi finanziaria a fine 2008, ingenti masse di denaro, a livello globale, non trovano ancora un impiego redditizio. È un sintomo della paralisi degli investitori: la riluttanza a tornare sul mercato, nonostante i possibili vantaggi a lungo termine. Nell’attuale contesto di financial repression, con i rendimenti degli asset risk-free ai minimi storici, il vero rischio è non esporsi al giusto grado di rischio in maniera intelligente.
Il fattore di gran lunga più importante nella paralisi degli investitori è l’avversione alle perdite. Al diminuire del valore del proprio portafoglio gli individui provano un senso di sofferenza psicologica dovuta alla reazione negativa della mente intuitiva. Inoltre, come affermato da Richard Thaler della University of Chicago:
le persone sono ancora più avverse alla prospettiva di perdite future se hanno già subito perdite in passato, come è accaduto alla maggior parte degli investitori durante la crisi finanziaria del 2008.
Se un investitore impiegasse tutto il proprio denaro in una singola operazione di mercato, quella somma di denaro diventerebbe un punto di riferimento rispetto al quale calcolare gli effetti delle fluttuazioni di mercato che accrescono o riducono il valore dell’investimento. Ogni movimento del mercato che accrescesse o diminuisse il valore dell’investimento, sopra o sotto il punto di riferimento, sarebbe molto facile da calcolare. E la mente intuitiva risponderebbe negativamente alle perdite.
Se tuttavia un cliente investisse almeno una determinata porzione del suo portafoglio a intervalli regolari (ad esempio attraverso un piano di accumulo mensile o trimestrale), non vi sarebbe un punto di riferimento immediatamente ovvio; non vi sarebbe, cioè, un singolo dato rispetto al quale misurare la performance. In tal caso, è molto meno probabile che si manifesti un’avversione alle perdite.