Tra gli indagati compare il presidente dimissionario Gianni Zonin (che da 20 anni era alla guida della banca), non senza però aver essersi auto-deliberato continui finanziamenti per sostenere le proprie attività imprenditoriali e aver ricevuto un compenso di 1 milione per il lavoro svolto nel 2015.
Ma cerchiamo di andare con ordine.
E’ evidente come la sotto-capitalizzazione, ovvero la carenza di risorse proprie rispetto ai prestiti erogati, di cui da anni soffrono le banche italiane, è da considerarsi un grave problema. Così come va da sé che per la sopravvivenza di una qualunque società (è necessario convincersi una volta per tutta che una banca è una società a tutti gli effetti ed in quanto tale va alla ricerca del profitto) ogni deficit vada coperto.
In un contesto del genere la Popolare di Vicenza si impegnava già da anni a ricercare continuamente e disperatamente fondi. Tra un aumento di capitale e l’altro il prezzo per azione è giunto a 62,5 euro, un prezzo che come sempre veniva stabilito dal Consiglio di Amministrazione non essendo la Popolare ancora quotata in Borsa. Trattandosi di un mercato informale, dove è la Banca stessa a gestire ogni operazione tipica di Piazza Affari, non è così facile convincere gli investitori a comprare titoli, così il problema veniva aggirato erogando ai clienti una serie di finanziamenti, dal valore complessivo di 950 milioni, da utilizzare per l’acquisto di azioni dell’istituto stesso. Si tratta di un’operazione espressamente vietata.
Il risultato è che nei mesi successivi fioccano le denunce dei correntisti che raccontano di pressioni per indurli ad acquistare le azioni, di accordi per ottenere il via libera alla concessione di un mutuo o al ricevimento di prestiti a tassi agevolati e di irrealizzabili promesse di facilitazioni nel poter cedere in qualsiasi momento tali azioni.
Come se non bastasse, la BCE, con i poteri di vigilanza che gli sono stati conferiti, interviene imponendo una drastica pulizia nei conti. Non che ciò già non avvenisse sotto le direttive di Bankitalia, ma se nel 2013 le svalutazioni ammontano a 390 milioni, nel biennio 2014/15 la cifra sale a 1,5 miliardi. Pulire i conti significa liberarsi di tutti i crediti inesigibili cedendoli alle bad bank, le "banche cattive" (il cui lavoro è proprio gestire i crediti anomali ricevuti) ed eliminarli dagli attivi di bilancio, il chè corrisponde a non essere più in grado di coprire, anche dal punto contabile, i numerosi debiti contratti e di conseguenze non superare lo stress test.
In tutto ciò, il bilancio del 2014 si chiude con 785 milioni di perdite che diventano 1 miliardo l’anno successivo. Il valore delle azioni crolla a 6 euro mandando in rovina ciascun risparmiatore che aveva creduto, o era stato costretto a credere, nelle capacità della sua banca di riferimento. Il fallimento è dietro l’angolo e l’unica speranza di salvezza diventa procedere con un ulteriore aumento di capitale di 1,5 miliardi di euro e con la quotazione in borsa.
- Operazione numero 1: aumento di capitale al prezzo di sottoscrizione di 0,10 euro. Essendo scontato che i soci preesistenti non avrebbero mai esercitato il loro diritto di precedenza nell’acquistare le nuove azioni messe in circolazione, ci si rivolge alle altre banche. In Italia gli istituti di credito che hanno una rilevanza finanziaria globale si contano sulle dita di una mano, anzi per l’esattezza basta alzare il pollice: Unicredit. Ed ecco che al meeting della settimana scorsa, che ha visto la partecipazione del direttore della Banca d’Italia Ignazio Visco e il Ministro dell’economia Padoan, l’unica ad accettare di sottoscrivere la propria quota di azioni è proprio Unicredit. Non il massimo se si pensa che essa soffre degli stessi mali che affliggono il sistema e rientra per il rotto della cuffia nei requisiti di patrimonialità europei.
- Operazione numero 2: quotazione in borsa. Non potendo mettere Unicredit in condizione di dover a sua volta raccogliere capitali per poter detenere la maggior parte delle azioni della Popolare diventa fondamentale il successo della quotazione di cui essa si è fatta garante. Ed invece la quotazione salta per la più che prevedibile assenza di interesse nel rilevare quote di una società completamente senza valore.
Il proprietario al 99,30% della Banca Popolare di Vicenza è ora il fondo Atlante, uno strumento gestito da una società privata ma finanziato principalmente da Banca Intesa e Unicredit ed in misura minore da altri istituti, fondazioni bancarie e la Cassa Depositi e Prestiti e che ha raccolto circa 5 miliardi di euro. Questo fondo nasce qualche settimana fa proprio con lo scopo primario di sostenere i difficili aumenti di capitale di banche in crisi, assorbendone ogni azione invenduta, perciò prima ancora che il tentativo di collocamento in Borsa fallisse, era stato preventivato un accordo nel subentrare ad Unicredit nel ruolo di garante dell’aumento di capitale.
In sostanza quella che doveva essere una carenza localizzata nella sola realtà veneta si è intrecciata con il resto del sistema finanziario italiano che a sua volta non è altro che una sorta fotocopia della singola realtà emersa a Vicenza. A noi spettano una serie di primati di cui non poter andare fieri: percentuale maggiore di crediti difficilmente recuperabili, per un totale di 360 miliardi (che rappresenta il 20% di tutti i crediti forniti alla clientela) di cui ben 200 nelle mani di debitori ormai considerati insolventi; redditività più bassa di tutto i paesi del G20; il più gran numero di sportelli per abitante. Un’agonia prolungata da una ripresa economica troppo debole (PIL cresciuto solo dello 0,7% l’anno precedente dopo un decennio di pura stagnazione).
Infine occorre sottolineare l’esistenza di ulteriori elementi preoccupanti: nel tempo il fondo Atlante provvederà all’acquisto di 80 dei 200 miliardi di crediti deteriorati, una cifra lontanissima dalle sue attuali capacità economiche; il senso di sfiducia nel sistema potrebbe convincere la popolazione a ritirare i propri depositi bancari, innescando una corsa agli sportelli; una riforma del settore bancario ancora inefficace e che ha risolto in maniera piuttosto confusa e superficiale il caso Etruria.
Il sistema bancario italiano è in un momento cruciale e sulla base delle decisioni prese nei prossimi mesi potrebbe formarsi l’intero sistema europeo, con il concreto rischio che il fallimento di una nostra banca (con applicazione del bail-in per la prima volta nella storia) possa causare una reazione a catena in tutta Europa.
Tra qualche giorno ci sarà la quotazione in Borsa di Veneto Banca (di cui Intesa San Paolo ha già sottoscritto azioni per un miliardo di euro), la sorella altrettanto malata della Popolare di Vicenza. A voi le conclusioni.