Il 19 febbraio, il primo ministro britannico, David Cameron, ha espresso il suo impegno a negoziare le relazioni tra Regno Unito e Unione Europea (UE). I colloqui, per evitare il Brexit, si sono concentrati su quattro aree chiave: l'immigrazione, la sovranità, la competitività e il welfare. Come risultato, Cameron rivendica un certo successo in tutte e quattro le aree. Dal punto di vista dell'UE, ciò che ha ottenuto Cameron getteranno nuova luce sull'integrazione europea e sulla sovranità che porta rischi a medio termine. Ma i sostenitori del "Brexit", ritengono che le nuove condizioni abbiano una minor protezione, da una sempre più potente UE.
L’ostacolo imprevisto nella corsa verso il 23 giugno, giunge in questi giorni però, dal cosidetto "Panama Papers", il quale non è solo scenario di dubbia moralità, qualora fosse provata l’esplicita volontà di evadere il fisco, ma potrebbe significare "Brexit". Non, per l’impatto che avrebbe la sottrazione britannica ai numeri dell’Unione, ma per il senso di fragilità che porterebbe con sé un "No" al referendum di giugno. Fiaccati dalla crisi dell’euro, divisi da quella sull’immigrazione, i Ventisette rimasti, in caso di uscita britannica, si ritroverebbero a sedere su un progetto comune precario di un’Europa da dove entrare e uscire, senza eccessivi patemi. Forse è questo, il mondo nuovo, o meglio la "terra incognita", denunciata da Mario Draghi relativamente alla crisi dell’eurozona e alle risposte di una politica monetaria che spesso si è trovata a fronteggiare le emergenze quasi in solitudine.
L’immagine del premier britannico David Cameron che alla Camera dei Comuni sventola la sua dichiarazione dei redditi per giustificarsi davanti a un popolo incline al giudizio sommario, è la rappresentazione di quanto si sperava non accadesse mai. È, infatti, sempre più difficile scindere gli accadimenti europei, siano essi strettamente economico-finanziari o più squisitamente socio-politici, essendo la rappresentazione di un'opera incompiuta. L’Europa, fino ad'ora, ha saputo piegarsi per far passare la tempesta, ma adesso si cominciano ad intravedere le crepe. Il referendum britannico rischia di essere il detonatore della crisi finale. L'altro giorno alla Camera dei Comuni, David Cameron non è apparso un evasore fiscale, si è anche scrollato di dosso, con discreta eleganza, il sospetto di essere un elusore, nonostante gli imbarazzi dei giorni scorsi. Non ha potuto, però, liberarsi della realtà, quella che lo condanna ad essere il privilegiato prodotto delle upper classes del Regno Unito, in netta contrapposizione con il leader dell’opposizione laburista, il radicale Jeremy Corbyn. Cameron purtroppo, continua a non piacere troppo, se poi, è anche sospettato di aver goduto di investimenti off-shore allestiti dall’avvertito genitore, la disapprovazione cresce. La ferita dunque è profonda, ma non per quanto ha commesso, ma per l'ombra che allunga attorno a sé e non saranno le misure antievasione annunciate e la moderata glasnost britannica sui redditi dei politici, che potranno mutare la percezione di una credibilità infranta. I sondaggi nei prossimi giorni ci diranno quanto, ma temiamo abbastanza per alienare il voto laburista al referendum sull’Ue. E senza il bacino elettorale dell’opposizione, David Cameron potrebbe passare alla storia come il premier che portò Londra fuori dall’Europa.
Con il referendum fissato per il 23 giugno, il regno di "Sua Maesta" deve affrontare poco più di due mesi di significative incertezze. Vi è un notevole sostegno da parte di alcuni pesi massimi della politica per un Brexit, come dal sindaco di Londra Boris Johnson e dal Segretario della Giustizia Michael Gove, entrambe figure di tutto rispetto all'interno del partito profondamente euroscettico Tory e anche la stampa inglese è in gran parte euroscettica. Paul de Grauwe afferma che il Brexit sia la soluzione migliore proprio per l’Europa, poiché il governo inglese potrebbe diventare un ostacolo importante al necessario processo d’integrazione che serve a stabilizzare l’area euro.
I sondaggi di opinione mostrano che l'opinione pubblica è finemente in bilico, con una leggera tendenza verso la rimanenza nella UE. Fino a questo punto, il dibattito si è incentrato sull'afflusso di migranti UE, con metà dei britannici che citano il loro superiore interesse. Nelle prossime settimane, possiamo aspettarci sondaggi molto volatili mano a mano che il referendum si avvicina. Da un sondaggio condotto da "Yougov" e pubblicato dal "Times", si evince anche che la fiducia nei confronti del premier britannico David Cameron è scesa di otto punti percentuali e che favorevoli e contrari alla permanenza della Gran Bretagna all'interno dell'Unione europea sono testa a testa, rispettivamente con il 39% dei consensi, mentre gli indecisi rappresentano il 17% e chi si asterrà il 5%. Il sondaggio è stato condotto interpellando 1.693 persone tra l'11 e il 12 aprile. Il precedente sondaggio di "Yougov" di una settimana fa vedeva i favorevoli alla permanenza di Londra nell'Ue al 40% e i contrari al 38%.
Le implicazioni economiche di un Brexit sono viste come ampiamente negativi. La contro-argomentazione che l'economia potrebbe migliorare, non è ancora stata fatta in modo convincente. A conti fatti, quindi, ci aspettiamo che la Gran Bretagna possa votare per rimanere in Europa, ma con una notevole incertezza in vista del voto. Per questo motivo, nel Regno Unito l'attività delle aziende e degli investitori rischia di essere prudente per i prossimi mesi, in quanto le implicazioni negative di una possibile Brexit sono scontate. Ma la domanda da porci è quali sono le reali implicazioni e chi ne subirebbe maggiormente gli effetti.
Certamente il Regno Unito perderebbe il passaporto europeo, cioè (la possibilità di offrire servizi da un singolo stato membro in tutta Europa) e dovrebbe rinegoziare l’accesso al mercato europeo. Si somma poi la rinegoziazione di accordi al commercio con un centinaio di nazioni, firmati dal Unione Europea con il potere contrattuale dei 28 paesi membri. L'UE è il principale partner commerciale britannico e rappresenta il 12,6% del PIL, per cui concordare nuove ragioni di scambio sarà essenziale, ma anche molto difficile da raggiungere in un tale arco di tempo limitato, in particolare nel settore dei servizi finanziari. Inoltre, gli altri governi dell'UE saranno poco incentivati ad offrire condizioni favorevoli al Regno Unito. In questa fase di transizione, si creerebbe molto probabilmente una fuga di capitali, guidata dalle multinazionali e industrie inglesi che si ricollocherebbero in paesi come Irlanda o Lussemburgo per beneficiare del mercato interno. Questa fuga potrebbe mettere in ginocchio l’economia inglese. La Scozia molto probabilmente chiederebbe di uscire dal Regno Unito e di rimanere nel Unione Europea. L’Europa, dal canto suo, perderebbe la sua seconda economia e anche centro finanziario, crocevia dei capitali di mezzo mondo. Si creerebbe inoltre un precedente per un graduale passaggio da una comunità di stati accomunati dal accesso ad un mercato unico, a una sempre più ristretta cerchia di stati e istituzioni sovranazionali. Il Regno Unito è anche tra gli stati membri che vogliono fortemente l’integrazione del mercato unico. Una spinta politica utile per rilanciare il progetto europeo. Il referendum sul Brexit può portarci indietro di 50 anni o proiettarci nei prossimi cinquanta.
L'impatto sul commercio e il sentimento potrebbe essere gravemente negativo per la crescita economica nel Regno Unito, con un commercio più debole, almeno inizialmente, ed un ridotto potenziale di crescita a causa di minori immigrazione, che hanno aumentato il PIL negli ultimi anni. Sia gli investimenti che i diretti afflussi esteri a favore di attività britanniche rischiano di diminuire in vista del referendum. Le aspettative per il Brexit è che la crescita diminuisca dal 1 al 1,5% dalle previsioni attuali, una perdita totale del 4% del PIL, e che la sterlina crolli di un altro 10% raggiungendo in minimi, come nel 2007-2009, con la conseguenza di una diminuzione dell'inflazione del 3-4% su base annua previsto nel 2017/18.
Le grosse multinazionali del Regno Unito con ricavi non in sterlina potrebbero trarre beneficio dalle differenze di conversione, ciò potrebbe mitigare le perdite complessive sulle azioni. Le aziende del settore energetico e delle materie prime possono essere esempi importanti. Quelle del settore finanziario potrebbero probabilmente soffrire visto che l'accesso al mercato dell'UE potrebbe essere molto incerto. L'impatto primario del Brexit sulle attività finanziarie potrebbe avvenire attraverso il tasso di cambio, con un indebolimento in modo significativo della sterlina. I tassi a breve termine potrebbero andare più in alto, ma la Banca d'Inghilterra potrebbe resistere alla tentazione di un aumento della politica dei tassi, in particolare se il paese fosse in fase di recessione.
Il resto dell'UE dovrebbe essere relativamente indenne da perturbazioni commerciali, con le esportazioni verso l'U.K. che rappresentano solo il 3,1% del PIL dell'Unione europea. L'impatto principale sarà probabile politico. Pertanto, gli stati politicamente più fragili e meno degni di credito d'Europa soffriranno di più il contagio. Questo significa, i paesi periferici come il Portogallo, l'Italia e la Grecia, ma vanno inseriti anche la Finlandia e la Francia.
Qualcuno, si è chiesto però, se non fosse addirittura meglio per l'UE, l'uscita del Regno Unito. Paul De Grauwe, sostiene questa teoria. Supponiamo che i sostenitori della Brexit vengano sconfitti e che il Regno Unito rimanga nella Ue. Questo non fermerà l’ostilità di coloro che hanno perso, né ridurrà le loro ambizioni di voler ridare al Regno Unito la piena sovranità. Una volta appurato che non possono lasciare la Ue, i fautori dell’uscita cambieranno la loro strategia e ne adotteranno una in stile “cavallo di Troia”, che implicherà lavorare dall’interno per minare l’Unione. Sarà una strategia mirata a ridurre le decisioni a maggioranza per sostituirle con un approccio intergovernativo. Lo scopo sarà una lenta decostruzione dell’Unione. Si potrebbe ribattere che con una sconfitta al referendum, i sostenitori della Brexit perderanno influenza, ma non lo si può dare per certo. L’accordo raggiunto da David Cameron con il resto dell’Ue non ha ritrasferito neanche un briciolo di sovranità a Westminster. Sarà dunque visto da chi vuole l’uscita dall’Europa come un enorme fallimento e ciò li porterà a intensificare la strategia di decostruzione. In conclusione, non è negli interessi dell’Ue mantenere nell’Unione uno stato che continuerà a essere ostile e che perseguirà una strategia volta a minarlo ulteriormente. E dunque sarà meglio per l’Unione Europea che i sostenitori della Brexit vincano il referendum. Quando la Gran Bretagna sarà fuori dall’Ue, non sarà più capace di minarne la coesione. E la Ue ne uscirà più forte. Il Regno Unito sarà invece indebolito e dovrà bussare alle porte dell’Ue per iniziare i negoziati di un accordo commerciale. Nel frattempo, avrà perso la sua moneta di scambio. L’Ue sarà capace di imporre un trattato commerciale che non sarà molto diverso da quello che ha già oggi in qualità di membro dell’Unione. Allo stesso tempo, però, si sarà ridotto il potere di uno Stato la cui ambizione è minare la coesione dell’Unione stessa.
A questa tesi, fanno da contraltare le recenti dichiarazioni del FMI e un report Goldman Sachs, in cui si sostiene che per l'Europa, che rappresenta un gruppo di interessi eterogenei, la Gran Bretagna è un partner importante, in grado per esempio di appoggiare riforme orientate al libero mercato. "In un periodo in cui l'Europa è sottoposta a grandi tensioni politiche (all'interno dei Paesi e tra gli Stati stessi) legati alla crisi dei rifugiati, l'effetto combinato di un Regno Unito che vota per lasciare la Ue e la possibilità che le tensioni sui migranti si intensifichino durante l'estate rappresentano una prospettiva preoccupante".
Il monito lanciato poi, dal Fondo monetario internazionale (Fmi), è che l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea potrebbe provocare "gravi danni a livello regionale e globale". Per lo Fmi la cosiddetta "Brexit" sconvolgerebbe le consuete relazioni commerciali e comporterebbe "enormi sfide" sia per il Regno Unito che per il resto d’Europa. Il Fondo prevede per quest’anno una crescita dell’economia britannica dell’1,9%, rispetto alle stime del 2,2% fatte a gennaio. Per il prossimo anno la crescita prevista è del 2,2%, invariata rispetto alle stime precedenti. Per l’eurozona invece, le previsioni sono al +1,5% nel 2016 e al +1,6% nel 2017, a fronte del +1,7% stimato a gennaio per entrambi gli anni. Nell’area dell’euro gli investimenti bassi, l’alto tasso di disoccupazione e i bilanci deboli pesano sulla crescita, che rimarrà modesta.
Per queste ragioni stanno nascendo diverse iniziative per tentare di convincere i cittadini britannici a restare nell'Unione Europea. A poco più di due mesi dal referendum che deciderà la permanenza del Regno Unito nell'unione, Katrin Lock, una donna tedesca residente a Londra, ha lanciato l'iniziativa "Hug a Brit", letteralmente "abbraccia un britannico", per manifestare ai "sudditi di sua maestà" la vicinanza dei popoli europei. Così su social network sono iniziati a circolare gli hashtag #hugabrit e #pleasedontgouk (Regno Unito per favore non andare) che gli utenti stanno iniziando a utilizzare per condividere foto nelle quali abbracciano un amico britannico.